Wake up — Sveglia Riformatori!
Memoria storica condivisa e riscossa unitaria dei Riformatori
Introduzione
L’obiettivo dell’iniziativa è di realizzare uno scavo storiografico, su un arco temporale lungo e su un terreno frastagliato nel quale sono sedimentati fondamenta e detriti, segni di un faticoso lavoro costruttivo ed evidenze di sconfitte, di conflitti e confini travalicati.
Il luogo storico dell’indagine è il campo vasto dei Partiti e dei Movimenti che nel corso del ventesimo secolo sono sorti, si sono dati visioni, strutture e programmi per innescare il ‘ciclo socialdemocratico’ ovvero dell’emancipazione, promuovendo i diritti sociali e politici negati, facendosi scudo e strumenti di mobilitazione, attraverso le Leghe (rosse e bianche) per i ceti popolari urbani, per la classe proletaria generata
dal processo di industrializzazione e per le masse agricole sottoposte a regimi proprietari vessatori, al nord come al sud.
L’indagine e la riflessione che essa deve suscitare sono focalizzati sul DNA delle culture politiche che hanno generato un’ampia e diffusa partecipazione alle denunce ed alle lotte, articolata territorialmente e manifestatasi attraverso forme e protagonisti (intellettuali e leader) radicati nei territori, animati dalla volontà di allargare gli spazi di libertà e giustizia sociale all’interno di un sistema democratico ‘accettato’, ma non ‘subito’ nelle sue caratteristiche di arretratezza, sfruttamento, prevaricazioni,
violenze.
E’ la matrice genetica del riformismo che ci interessa ‘isolare’ allo scopo di riconoscere i virus ideologici che l’hanno contrastata e combattuta non solo dal versante dell’autoritarismo istituzionale, ma anche sul terreno della competizione per la rappresentanza sindacale e politico-partitica.
Tale ricerca naturalmente si intreccia con l’analisi dei programmi e degli obiettivi con cui i diversi attori hanno intesto fronteggiare le ‘grandi trasformazioni’ intervenute nel XX secolo e contrastare l’ostilità e l’aggressività dei poteri dominanti.
Siamo consapevoli di quanto sia ardua una tale impresa nel panorama culturale italiano e in quello storico in particolare, travalicando le appartenenze a scuole di pensiero ed alle diverse ‘tribù’ consolidatesi nel corso di un tempo funestato non solo dal ventennio del totalitarismo fascista, ma anche dal manifestarsi e dal riapparire delle faziosità e delle divisioni sanguinose, dal confermarsi l’Italia un Paese dall’identità nazionale fragile e resa precaria da fratture territoriali nello sviluppo
economico e dai conflitti ideologico-valoriali strettamente correlati alla funzione temporale della Chiesa, apertamente avversaria del Potere statuale ed al coinvolgimento dei cattolici nei processi della partecipazione democratica.
Gli ostacoli alla piena affermazione delle Organizzazioni socialiste e popolari e delle loro istanze di progresso si sono appalesati, però, anche attraverso l’insediarsi organizzativo e il diffondersi, nelle campagne e nei centri urbani industrializzati, della predicazione rivoluzionaria dapprima attraverso le diverse fazioni massimaliste del PSI e successivamente con la nascita del Partito Comunista d’Italia, che dal ’21 fino agli anni ’70 ha costituito una presenza crescente, dapprima nella clandestinità e nel
dopoguerra diventata massiccia e determinante nelle scelte strategiche delle Forze sociali e politiche impegnate a contendersi la rappresentanza del mondo del lavoro e dei ceti popolari.
Il pluralismo, la frammentazione e la conflittualità che hanno caratterizzato ed accompagnato la storia del Movimento operaio e dell’intera Sinistra sociale e partitica sono stati, come si sa, i fattori di debolezza e vulnerabilità che hanno aperto il varco al progetto mussoliniano di sequestrare le deboli istituzioni democratiche ed assoggettarle al suo personale dominio, ma hanno anche costituito — dopo la Liberazione dal Fascismo — ostacoli e barriere persistenti che hanno impedito il pieno dispiegamento del regime democratico, condizionato e per molti versi ‘intrappolato’ dall’inagibilità dell’alternanza al Governo resa impraticabile dall’appartenenza di uno degli attori politici (il PCI) protagonisti della Resistenza e della redazione della Costituzione, al ‘campo sovietico’ ovvero all’avversario mortifero dello schieramento occidentale.
Tale configurazione del quadro partitico nazionale ha determinato non solo sciagurate divisioni valoriali, ideologiche e strategiche per quanto attiene le scelte economiche e di collocazione internazionale, ma vieppiù una molteplicità di appartenenze a scuole di pensiero e di ricerca storica, diventate nel tempo veri e propri serragli che hanno condizionato la libertà e lo scambio, con obbligati ‘lasciapassare di clan’ per lo studio del movimento cattolico, piuttosto che di quello comunista, dell’esperienza liberaldemocratica invece di quella socialista, con la conseguenza di immobilizzare i processi culturali e disseminare le dissonanze cognitive che tuttora oscurano il confronto storiografico, ma soprattutto distorcono
la comprensione delle cause e dei rimedi di un assetto istituzionale ingessato ed in grado di generare, dopo lo spartiacque dell’ ’89 — che ha sbloccato la dialettica democratica — solo una supposta alternanza, connotata ed alterata da cospicue dosi di populismo che hanno condizionato ed inficiato il rendimento della governance, spacciata come discontinuità rispetto al ‘vecchio sistema’.
Una spiegazione plausibile di questa realtà del tutto insoddisfacente ce l’ha data Mino Martinazzoli nel 2011 in un’intervista nella quale, con l’amaro disincanto e la lucidità che lo contraddistinguevano osservava criticamente le ipocrisie, la superficialità e le contraddizioni di un ceto politico supponente di avere fatto transitare il Paese verso le magnifiche sorti progressive della Seconda Repubblica quando in realtà i «Molti
gridavano perché volevano il superamento del sistema di potere democristiano. Ma i più non volevano superarlo, volevano solo ereditarlo»!
Ma oggi il problema è ancora più grave dei disinganni registrati dal ’94 fino ai nostri giorni, da quando cioè di fronte al rischio dell’avvento di ‘una spregiudicata nomenklatura post-sovietica’ (leggi in Non dimenticare Berlinguer, Luciano Canfora, MicroMega 1/97) al comando della ‘gioiosa macchina da guerra’, il tycoon di Arcore è riuscito nella memorabile impresa di attivare tempestivamente una risposta vincente con una inedita Rete organizzativa strutturata per mobilitare l’elettorato con l’ausilio del linguaggio persuasivo del marketing veicolato dall’allora decisivo media televisivo.
E se l’operazione di Achille Occhetto presupponeva opportunisticamente l’archiviazione dell’epopea berlingueriana, la discesa in campo di Silvio Berlusconi promuoveva spregiudicatamente l’oscuramento a reti unificate della ingombrante Prima Repubblica, con la fervente collaborazione della Procura di Milano autoincaricatasi del lavoro sporco e che, dopo aver contribuito con la sua azione a destrutturare ed annientare, non casualmente, solo i Partiti del Centrosinistra, si è dedicata con rinnovata energia a depotenziare la leadership — del Centrodestra — affermatasi nella sorpresa generale e sicuramente di un Pool di Mani Pulite che aveva immaginato un ‘repulisti’ più radicale e profondo, non certo che la provocata uscita di scena delle Rappresentanze partitiche favorisse il successo di un inedito schieramento capitanato da Forza Italia.
Resta il fatto eclatante che i nuovi contendenti della competizione politica bipolare avevano puntato in modo convergente le loro carte sulla smagnetizzazione della memoria dell’elettorato, convincendolo che iniziava una nuova partita nel campionato della Seconda Repubblica.
E’ così iniziato il trentennio nel quale è diventata egemone una narrazione leggera, divulgata attraverso una comunicazione politica vaniloquente ed ir-responsabilizzante e con la trasformazione della nuova tornata di leader politici in personaggi televisivi, con l’effetto inevitabile che la Politica si è adattata a mutarsi in spettacolo, per essere ‘popolare’, e successivamente — con l’arrivo delle piattaforme e dei device digitali che hanno consentito l’autoproduzione dell’informazione — ‘populista’, ovvero oltre che smemorata, anche disintermediata.
Ora che, per semplificare usando una metafora abusata, “tutto il dentifricio è uscito dal tubetto”, il nostro intento non è riavvolgere il nastro della storia recente, ma è più circoscritto, anche se arduo: verificare se e come la discontinuità nella recente vicenda politica italiana ha provocato la gemmazione di subculture e pratiche politiche che hanno indebolito la funzione di rappresentanza democratica ed inficiato il rapporto delle Organizzazioni partitiche con i cittadini, facendoli diventare il bersaglio di una comunicazione fallace, allontanandoli progressivamente dalle arene della partecipazione, diventata una fenomenologia virtuale e surrogata, coinvolgendoli al contrario in una messaggistica tutta orientata a nebulizzare valori, programmi ed obiettivi, con una inevitabile torsione propagandistica che ha contaminato anche l’attività di governo.
Riteniamo giunto il tempo per analisi e riflessioni adeguate in quanto siamo entrati in un cambio d’epoca che richiede un profondo mutamento dei paradigmi interpretativi, sia per il grado di intensità delle trasformazioni in atto che per l’appalesarsi sempre più evidente dell’insufficienza delle strategie artificiose messe in atto nell’ultimo trentennio.
Diciamo subito che ci avvarremo di un approccio interpretativo euristico teso a comprendere e rilevare non solo gli effetti perniciosi della fenomenologia politico-partitica sopra denunciata, ma anche tutto ciò che di buono la storia recente ci ha consegnato, con tentativi parziali e progetti compiuti con cui Centrodestra e Centrosinistra si sono dati una visione ed una strategia operativa che hanno consentito loro di attrarre l’elettorato e convincerlo di rappresentare lo schieramento più adatto per il Governo del Paese.
Segnaliamo però che nel nostro lavoro di ricerca saremo orientati da un ‘pregiudizio favorevole’ nei confronti delle Forze e dei Gruppi politici che si sono avvicinati e cimentati con coraggio ed efficacia sul terreno del rinnovamento socioeconomico e della tutela della popolazione più fragile, con riforme ed applicandosi nel metodo della implementazione dei processi nell’ambito della programmazione e corretta gestione finanziaria, della giustizia sociale e dell’efficientamento del welfare, del sostegno all’innovazione ed all’imprenditorialità per l’incremento dello sviluppo e della produttività, intesi come leve fondamentali per la creazione della ricchezza, destinandola alla re-distribuzione con rigorosi criteri di equità e di riequilibrio territoriale della crescita.
E con questa impostazione vogliamo partire da lontano, perché ci muove la convinzione che il mancato approdo unitario nell’azione riformatrice dei leader e dei movimenti che sin dall’inizio del secolo scorso erano animati da valori ideali, diagnosi dei guai socioeconomici ed istituzionali dell’Italia, programmi e rivendicazioni convergenti, costituisce tuttora un grumo di angosce ed un groviglio di interrogativi storici per i danni immensi co-determinati e le resistenti difficoltà a promuovere un autentico Partito socialdemocratico nel secondo dopoguerra ed un inedito quanto indispensabile Partito liberaldemocratico oggi.
Solo per dare un’idea dei nodi problematici evidenziatisi ed accumulatisi nell’ultimo secolo:
1) chi è stato il maligno ispiratore della scissione suicida del PCd’I a Livorno nel 1921?
2) Quali sono stati gli avversari malefici che nel 1922 hanno impedito che Filippo Turati per conto del PSI e don Luigi Sturzo del PPI siglassero l’accordo per unire in Parlamento le loro forze largamente maggioritarie ed arrestare l’attacco omicida alle Istituzioni democratiche del manipolo dei fascisti capitanati dallo sciagurato aspirante dittatore?
3) Come è stato possibile che di fronte al barbaro assassinio nel 1923 di Don Giovanni Minzoni da parte di una squadraccia fascista, da Oltretevere non sia trapelato nemmeno un comunicato di sdegno e condanna?
4) Ed inoltre, cosa era necessario di più sconvolgente dell’aggressione e barbara uccisione di Giacomo Matteotti nel 1924 per far scattare nei parlamentari dell’Opposizione l’audacia di una rivolta vera e non la masochistica secessione dell’Aventino?
5) E’ poi sicuramente difficile, direi improponibile, formulare rilievi e domande polemiche perentorie sui comportamenti degli intellettuali durante gli anni della dittatura, in particolare di quelli che hanno avuto per protagonisti i 40 firmatari del manifesto di Giovanni Gentile e quelli più numerosi del manifesto di Benedetto Croce; per non parlare della sottoscrizione da parte dei professori universitari del giuramento di fedeltà al fascismo; ed ancora dell’inquietudine, del travaglio interiore e del disorientamento causati dall’oppressione del Fascismo sugli esuli che cercarono e si illusero di identificare nel regime ‘rivoluzionario’ dei Soviet l’ancoraggio di un’alternativa, non potendo intuire — nel clima plumbeo in cui sopravvivevano — che in realtà il comunismo ne rappresentava un parente stretto, se non il gemello, certo il fratello di sangue generato dall’unico genitore del totalitarismo.
6) Ma nella temperie della riconquistata libertà, è difficile comprendere la scelta di Pietro Nenni di schierarsi con il Fronte Popolare, determinando un assoggettamento delle superiori ragioni del socialismo alla strategia togliattiana di un PCI a sua volta subalterno alla volontà ed alle mire geopolitiche di Stalin. Nel ’48 il leader socialista commise anche l’errore di schierarsi contro il Piano Marshall e ciò gli valse l’attribuzione del Premio Stalin, un piatto di lenticchie che gli costò la legittimazione a conquistare e guidare una Partito riformista e maggioritario nell’ambito della Sinistra, con conseguenze storiche straordinarie, ovvero la provocazione dell’impossibilità per l’Italia di poter contare su una ‘democrazia compiuta’ e non dover caricare tutto il peso della governabilità sulle spalle di una ‘democrazia ….cristiana’! E’ comunque ingeneroso attribuire oggi colpe e responsabilità ad una personalità come quella del leader socialista che ha vissuto la sua militanza politica nel fuoco della battaglia per contrastare l’avvento del fascismo nel segno di una generosità assoluta e che per questo ha pagato il prezzo di immensi sacrifici e dolori familiari (in particolare con la perdita della figlia morta nel lager nazista e del genero brutalmente assassinato dai fascisti).
7) Nel tempo e nel cielo della Prima Repubblica si sono, com’era naturale, addensate altre nuvole, intese come eventi e protagonisti che hanno impresso svolte negative alla storia del Paese: ma esse ci appaiono meno gravide di effetti devastanti, anche se su di esse la nostra attività di scavo storiografico produrrà annotazioni critiche che avranno, come tutte le altre, lo scopo di alimentare la riflessività e la consapevolezza indispensabili per generare un nuovo Pensiero politico sintonizzato con le sfide del tempo presente. Seppur di minore pregnanza storica, non sottovalutiamo alcuni tornanti nei quali le scelte operate da leader e forze della sinistra sociale e politica hanno danneggiato la reputazione, la legittimazione e l’efficacia dell’azione riformatrice, creando incomprensioni e differenziazioni che pesano tuttora sulla prospettiva unitaria, ovvero sulla ricomposizione nel segno del ‘liberalismo inclusivo’.
- Abbiamo già ricordato l’errore di Pietro Nenni che, però, con l’onestà e l’intelligenza politica che lo contraddistinguevano, ebbe la forza di uscire dalla trappola del frontismo in cui si era cacciato e partecipare alla formazione del Centrosinistra che, dalla presenza dei socialisti in Maggioranza trovò la spinta per avviare una formidabile stagione di riforme che videro anche il protagonismo delle componenti democristiane sinceramente orientate a politiche sviluppo del welfare ed evoluzione democratica del quadro politico: Luigi Gui (Riforma della Scuola), Carlo Donat Cattin (Statuto dei lavoratori e Politica industriale), Tina Anselmi (Riforma della Sanità).
- Ma la svolta di Nenni si scontrò con l’irrigidimento del PCI che optò per un contrasto non solo senza sconti con un PSI considerato un comprimario sleale, e poi un pericoloso competitor nel momento in cui l’ex Partner acquiescente, con la Segreteria di Bettino Craxi rivendicò e conquistò una piena autonomia e visione strategica per il Progetto riformista, attivando l’antica e mai dimenticata tecnica stalinista della demonizzazione.
- Sicchè, quando l’intero sistema politico-istituzionale logorato dall’assenza di un’autentica dialettica democratica, surrogata da un modello di governo consociativo e corruttivo, entrò nel loop di una crisi finanziaria strutturale, alla nomenclatura comunista parve l’occasione non tanto per realizzare un nuovo patto a Sinistra per un programma di rinnovamento profondo e condiviso, a cominciare dalle regole del gioco, in particolare del finanziamento pubblico ai Partiti, bensì per ‘regolare i conti’ e consegnare l’odiato ‘Cinghialone’ ai ‘cacciatori’ della Procura di Milano, sottraendosi in modo subdolo e disonesto all’analisi risolutiva della ‘questione morale’ che Enrico Berlinguer aveva evocato, ma scansando accuratamente la focalizzazione delle cause endogene di un assetto di governo complessivo del Paese e di rapporti tra i poteri costituzionali che coinvolgevano pienamente l’intera filiera organizzativa del PCI, sia per ‘l’oro di Mosca’ che per il poderoso ‘emungimento’ di risorse finanziarie eterodosse nell’ambito della sua costituency.
- Bisogna a questo punto segnalare che la ‘relazione pericolosa’ con la Magistratura, del PCI e dei suoi succedanei, compresa la componente che si insediò nel PD, ha costituito il maggiore impedimento alla legiferazione sulla questione Giustizia, che ha continuato a produrre una scia di inefficienze vessatorie sui cittadini e di clamorosi ‘errori giudiziari’ nei quali, in molti casi, si sono imbattuti i rappresentanti politici messi nel mirino da PM e Giudici ‘militanti’. A questo proposito meritano sicuramente una citazione i due casi più clamorosi verificatisi nel trentennio testè trascorso: quello dell’accanimento terapeutico su Silvio Berlusconi e quello del trattamento personalizzato riservato a Matteo Renzi ed alla sua famiglia, entrambi — guarda caso — diventati leader politici particolarmente odiati dai reduci della mai doma nomenclatura ex-comunista.
- E’ sicuramente il caso di ricordare che, all’interno della dolorosa e masochistica (torna spesso questo aggettivo, ma è quello che fotografa più nitidamente la realtà dei fatti storici) competizione tra il PCI ed il PSI a guida Craxi, si trovò coinvolto anche il Movimento sindacale: il ‘famigerato’ Patto di San Valentino (1984) confermò che nella visione strategica berlingueriana c’era solo spazio per una funzione subalterna ed ancillare dei soggetti sociali i quali avrebbero dovuto condividere i vetusti paradigmi interpretativi di una politica economica privata dei vettori e fattori dello sviluppo: innovazione tecnologica (qualcuno ricorda l’ostilità alla televisione a colori?), contrattazione e concertazione della politica dei redditi, lotta all’inflazione, produttività e competitività, e sottoposta ad un regime di austerità che avrebbe depresso non solo la crescita, ma anche i consumi popolari
- E siccome la natura (degli ex comunisti) non facit saltus, i cascami della subcultura anticapitalistica berlingueriana sono riapparsi trent’anni dopo quando il Governo Renzi ha intrapreso una terapia d’urto per scuotere una struttura economica cloroformizzata da elementi di ‘socialismo reale’ ed un apparato amministrativo-istituzionale narcotizzato dal vetusto modello organizzativo e da una stratificazione burocratica generatrice di inefficienze, sprechi della spesa ed oppressione dei cittadini. Ebbene, ecco l’innesco della faziosità scissionista dentro il Partito Democratico e della mobilitazione Cgiellina nella ‘madre di tutte le battaglie’ contro il Jobs act, che — a dieci anni dalla sua emanazione con Legge Delega — sarà sottoposto ad un’iniziativa referendaria per ripristinare il sempiterno status quo!
Com’era facilmente prevedibile, il combinato disposto delle arretratezze ideologiche e delle ricorrenti divisioni delle forze sociali e politiche candidatesi alla rappresentanza del mondo del lavoro e dei ceti popolari, ha sortito un progressivo depauperamento del consenso, in primis quello elettorale, accompagnatosi ad una crescente diserzione delle urne e ad un generale scadimento della qualità organizzativa e delle prestazioni di Organizzazioni sindacali e Partiti.
Cosicchè oggi in Italia come in Europa ed in tutto l’Occidente, la preoccupazione salita al primo posto dell’agenda politica è diventata il decadimento della Democrazia.
E questo significa per l’intero schieramento delle forze di ispirazione socialista e popolare aggiornare la mappa dei valori fondanti e delle priorità per la propria iniziativa.
Il contributo che con questo documento-base ci proponiamo di dare è una rassegna meditata delle questioni e dei temi & dilemmi che si sono sedimentati nel tempo lungo, a partire dalla ricognizione delle connessioni e fratture che hanno connotato la storia tormentata e tormentosa dei movimenti socialista e popolare, dell’interazione tra di essi e con la cultura liberaldemocratica ed azionista.
Esso quindi è composto da una raccolta di testi, articoli, saggi, link ed indicazioni bibliografiche suddivisi per titoli e parole chiave.
Uno sguardo sofferto sul XX° secolo e sulle vicissitudini del movimento socialista e popolare
Il socialismo e il popolarismo hanno entrambi svolto ruoli fondamentali nella storia politica italiana, influenzando profondamente il panorama politico del Paese e la sua evoluzione democratica.
Il socialismo in Italia affonda le sue radici nel XIX° secolo, intrecciate con le lotte del movimento operaio organizzatosi per conquistare i diritti di cittadinanza e promuovere la mobilitazione contro le disuguaglianze sociali. Sin dalla sua genesi e per l’intero XX° secolo esso è stato attraversato da molteplici correnti di pensiero e pulsioni che hanno determinato divisioni patologiche con rotture e scissioni caratterizzate da faziosità ma anche da visioni illuminate e pragmatiche ostacolate però da fughe dalla realtà, le cui conseguenze più drammatiche, nel primo dopoguerra, si sono manifestate con la nascita del PCd’I diventato fidato avamposto nazionale del bolscevismo russo, il condensarsi di una consistente componente massimalista e l’emarginazione del gruppo riformista, minoritario ma rappresentato dalle due personalità più robuste e carismatiche, Filippo Turati e Giacomo Matteotti, le cui qualità e chiaroveggenza non sono state sufficienti a preservare l’intero schieramento progressista dalla corsa verso l’irrilevanza ed i contraccolpi della reazione fascista, capitanata dall’ex leader socialista Benito Mussolini, privo di un esteso radicamento sociale, ma armato di una chiarezza strategica, della violenza organizzata con la creazione di un mini-esercito privato di squadristi e sostenuto dai ‘poteri forti’ degli agrari e dei gruppi industriali del Nord desiderosi di poter disporre di un movimento votato a ristabilire l’ordine con ogni mezzo.
Il popolarismo, d’altra parte, è emerso come movimento politico nel primo dopoguerra, principalmente attraverso il Partito Popolare Italiano (PPI), fondato nel 1919 da personalità cattoliche e democratiche, guidate da don Luigi Sturzo. E mentre il socialismo ha trovato il proprio naturale insediamento nelle aggregazioni industriali del Nord, il popolarismo ha trovato il suo terreno (è proprio il caso di chiamarlo cosi!) di proselitismo nelle realtà territoriali caratterizzate dalla tradizionale attività delle masse contadine e dei lavoratori della terra, facendo leva, in consonanza con la pastorale della chiesa, sui valori cristiani e promuovendo una diffusa mobilitazione attraverso l’organizzazione delle Leghe bianche che gli hanno consentito di acquisire una forte rappresentatività politica e parlamentare fino al momento in cui ha pagato l’opposizione al fascismo con il suo scioglimento deciso da Mussolini nel 1926.
Dopo la Seconda Guerra Mondiale, le radici del popolarismo hanno ripreso a germogliare trovando un humus favorevole per alcuni dei caratteri programmatici salienti del PPI nell’ambito della Democrazia Cristiana destinata a diventare dopo le elezioni del 1948 il baricentro fondamentale del sistema politico italiano, naturalmente in ragione della sua convinta scelta di collocazione nel campo occidentale con l’adesione al Patto Atlantico, ma anche per il fatto rilevante di poter contare sul diffuso sostegno dei ceti popolari, ritornati a praticare — dopo il ventennio della dittatura — la partecipazione democratica ridando vita alla estesa rete organizzativa delle Leghe riorientate ad un’attività associativa aderente alle mutate domande di una società in cammino per cogliere le insperate opportunità del Piano Marshall e di un aumento delle libertà economiche.
Va però segnalato che con la DC si è creato uno spartiacque decisivo rispetto alla visione strategica dell’evoluzione democratica del Paese maturata da don Luigi Sturzo: i contenuti ideologici e programmatici di tale discrasia sono stati illustrati in un saggio di Ernesto Galli Della Loggia pubblicato sulla rivista il Mulino 2/96: “La rimozione storica di Luigi Sturzo”.
In esso si sviluppa una riflessione sulla presenza del ‘Sacerdote di Caltagirone’ nel pensiero politico italiano: il suo giudizio sul liberalismo, sul fascismo, sull’inevitabile fallimento della Democrazia cristiana come partito della “società cristiana”; un contributo che è anche un invito a riscoprire in tutte le sue implicazioni la stringente ispirazione liberale di un italiano capace di pensare ed interpretare gli effetti storici per la politica della secolarizzazione e della modernità.
E’ da rilevare altresì che nel corso del dopoguerra e con particolare intensità dagli inizi degli anni ’60, dopo la traumatica interruzione dei passi di avvicinamento tra Filippo Turati e don Luigi Sturzo nel ‘21/’22 e la germinazione dei rapporti di collaborazione durante la Resistenza attraverso il Cln, si è avviato un confronto politico programmatico aperto e — seppur frenato e contrastato dalle componenti democristiane più conservatrici e retrive — generatore di frutti copiosi che dovrebbero costituire l’oggetto privilegiato degli studi storiografici proprio nell’attuale stagione politica caratterizzata da una dialettica in cui si fronteggiano l’aspirante leader dei Conservatori che mira ad ereditare i cascami elettorali del reducismo ed una Segretaria del PD che riecheggia il linguaggio della verbosità del massimalismo di antica memoria.
Nel corso degli anni del primo Centrosinistra le migliori espressioni culturali del socialismo e del popolarismo hanno trovato il modo di convergere nella promozione di una legislazione che ha affrontato le questioni strutturali decisive per il decollo dell’economia e per l’istituzione di un Welfare degno di uno Stato moderno e democratico: dalla nazionalizzazione dell’energia elettrica al Diritto del lavoro, dalla Riforma dell’Istruzione a quella della Sanità, dall’istituzione delle Regioni ai provvedimenti per la riorganizzazione e modernizzazione del mondo agricolo sia attraverso gli interventi sulla proprietà agraria che, soprattutto, il sostegno finanziario ottenuto con la partecipazione alla PAC (Politica Agricola Comunitaria).
I contenuti e le modalità della innovativa partnership politica hanno rappresentato uno scossone robusto all’intero assetto dei consolidati poteri nel Paese che non sono stati privi di conseguenze, tutt’altro: il timore di una parte significativa della classe dirigente, combinata con gli effetti corrosivi sul piano economico-finanziario della crisi internazionale petrolifera dei primi anni ’70, hanno innescato un circuito perverso nel quale l’Italia si è trovata sballottata da tensioni in parte esogene ed in misura crescente endogene, correlate al venir meno della coesione di un quadro politico nel quale le forze riformiste venivano progressivamente schiacciate tra le pressioni delle lobbies corporative ed un’Opposizione comunista interessata al governo consociativo, ma non in grado di dare il proprio contributo specifico ad un processo riformatore risolutivo delle strettoie dello sviluppo.
Nel corso degli anni ’70 le forze riformiste, a dire il vero, trovarono anche un altro terreno su cui esercitarsi unitariamente, quello dei referendum su Aborto e Divorzio, che fecero entrare il Paese nella stagione dei diritti civili, caratterizzata da una conflittualità e dalla sollecitazione di divisioni strumentali, che andavano a pescare nel profondo di coscienze e subculture non pacificate: leggi il rimestare i dissidi e la faziosità ideologico-valoriale tra le componenti presuntuose del laicismo liberale e le nomenclature del moderatismo cattolico, entrambe indisponibili ad un confronto che si proponesse di contemperare, attraverso una legislazione appropriata, la libertà (laica) delle scelte con il rispetto del pluralismo delle opinioni (religiose o meno che fossero).
E’ mancata in quella congiuntura una mobilitazione cognitiva che andasse oltre le legittime appartenenze agli schieramenti, prospettando una riflessione sull’arretratezza culturale e civica di un Paese nel quale “i liberali non hanno saputo dirsi cristiani” (riecheggiando il celebre saggio di Benedetto Croce) e viceversa “i cristiani non hanno saputo dirsi liberali”: si trattava di una questione cruciale che è tuttora presente ed ingombrante, sulla quale nel ’97, con un articolo sulla rivista il Mulino (5/1993, pp. 855–866) Ernesto Galli della Loggia cercava di aprire uno squarcio, con il coraggio e la lucidità intellettuale che gli è propria, per rilevare che “II conflitto fra il pensiero liberale e il cattolicesimo nel nostro paese ha portato al formarsi di due mondi separati, entrambi responsabili dei fallimenti storici della democrazia italiana. Oggi, l’affermazione di una cultura liberaldemocratica nazionale e la ricostruzione di un ethos pubblico diffuso presuppongono necessariamente l’incontro fra quella cultura e il sistema di valori proprio della morale cattolica”.
Sottolineo l’attualità della tesi dello storico romano perché proprio negli ultimi anni, a fronte della diffusa frustrazione per i fallimenti del ‘bipopulismo’, si è invocato da più parti e da diversi soggetti un movimento politico che fosse connotato dai valori liberaldemocratici.
Ma ben pochi hanno letto e/o avuto modo di ragionare sul monito di Galli Della Loggia: “Pensare le ragioni della propria debolezza, della propria scarsa presa sulla società italiana, meditare sui motivi di tale storica fragilità, è da centocinquant’anni uno dei compiti preferiti e — bisogna aggiungere — ahimè obbligatori, del pensiero liberaldemocratico in Italia. Sui risultati di tali riflessioni, però, ha operato e opera con un forte effetto distorsivo la condizione assolutamente contraddittoria nella quale la nostra storia ha posto la tradizione politica liberaldemocratica”.
Ripercorrendo le tappe in cui il pensiero e l’azione riformiste collocabili nel tempo della Prima Repubblica, resta da soffermarsi su un evento che si cerca di occultare od addirittura riesumare con un approccio revisionistico (nel senso di attribuirgli un significato negativo): il Patto di San Valentino, con cui le Organizzazioni Confederali CGIL CISL UIL, con l’autoesclusione della componente comunista della CGIL, concertarono con il Governo Craxi la sterilizzazione degli effetti inflazionistici della scala mobile, contribuendo in modo sostanziale ad invertire la curva micidiale della erosione dei salari causata dalla rincorsa inflazione/scatti di scala mobile. Ne facciamo solo un accenno, anche se la filosofia socioeconomica della predeterminazione, ovvero dell’anticipazione della dinamica inflazionistica, costituisce un pezzo importante di cultura riformista, per ricordare tre aspetti di quella vicenda:
a) l’ispiratore di quell’intesa fu il brillante economista Ezio Tarantelli, che pagò con la vita la sua generosa intelligenza e la sua competenza messe a servizio del mondo del lavoro: fu infatti trucidato dalle Brigate Rosse;
b) l’avversario numero uno di quell’intesa fu Enrico Berlinguer che con un’ostinazione pari alla sua arroganza non accettò che la Dirigenza ed il Movimento sindacale fossero in grado di esprimere e sostenere una strategia efficace di difesa dei lavoratori non ‘vidimata’ dal Comitato Centrale del suo Partito;
c) il Referendum abrogativo dell’Accordo sulla scala mobile celebrato il 9 e 10 giugno 1985 sancì una vittoria sorprendente ed inaspettata del ‘fronte riformatore’ che si affermò con il 54,32 dei consensi ed un vantaggio di voti più marcato in tutto il Nord e con una partecipazione al voto di quasi il 78 %!
Focus sulla storia contemporanea
Come si sarà capito da quanto finora scritto l’analisi contenuta in questo testo apre delle ‘fenditure’ sulla storia contemporanea, non esaurisce certo l’illustrazione dei saliscendi della lotta politica, semmai concentra l’attenzione sui fatti che mettono in rilievo le novità più in evidenza introdotte nell’agenda nazionale sotto il profilo dell’iniziativa riformatrice del Paese.
L’episodio appena ricordato esprime la valenza politica di aver dimostrato che il buongoverno macroeconomico poteva contare sul coinvolgimento e sulla co-responsabilizzazione delle Forze sociali nei processi decisionali, esempio e pratica che fu ripresa con particolare efficacia nell’Accordo di Concertazione della Politica dei redditi con il Governo Ciampi nel 1993.
Fissate nella memoria le due date (1984, 1993) e focalizzati i contenuti, i benefici generali e l’evoluzione democratica generati dei Protocolli sottoscritti in quelle occasioni, il tempo successivo apre ad un trentennio il cui inizio è sancito dalla campanella suonata dai Magistrati di ‘Mani pulite’ e dall’entrata in classe di uno scolaro inatteso e che, seppur sgradito e contrastato ferocemente sia dalla Procura milanese che da quella parte della Sinistra che si aspettava di ereditare, senza pagare pegno, il ‘sistema di potere democristiano’, in realtà dal 1994 ha lasciato la sua impronta indelebile sul Governo del Paese.
Silvio Berlusconi sin dalla sua ‘discesa in campo’ ha dettato il linguaggio e lo stile inediti (per il mercato politico italiano) della comunicazione politica, il ritmo e l’intreccio di programmi e propaganda, la tracciatura del campo di gioco con la predeterminazione delle squadre (non solo la sua, ma anche quella degli avversari, naturalmente indicati come un pericolo per la presenza nella lista dei giocatori degli ‘oriundi’ comunisti), ha persino lanciato il proclama della ‘rivoluzione liberale’, toccando in questo modo un nervo scoperto della Politica italiana, priva da sempre di Partiti che si impegnassero a mettere a nudo la ‘conventio ad escludendum’ dei principi liberaldemocratici innanzitutto sul terreno dello sviluppo economico.
Come ben sappiamo ed abbiamo ripetutamente constatato, nelle scelte concrete, l’unico principio guida della sua azione di Governo è stata la metodica ed ossessiva ricerca del consenso con l’abilità ed il carisma del tycoon rinforzati dalla sintonizzazione con gli interessi più robusti e consolidati diffusi nel Paese: molti fanno riferimento giustamente al vettore del suo successo elettorale rappresentato dalla proprietà dei mezzi di comunicazione, troppo pochi riconoscono il fattore trainante della sua legittimazione nel mondo ampio e trasversale delle attività immobiliari e delle costruzioni.
Ma su Silvio Berlusconi non c’è niente da scoprire: lui stessi si è ‘esposto al pubblico’ con una metodicità maniacale, dalla cura tricologica alla incontinente dimostrazione delle sue doti amatoriali, dalla dedizione assoluta all’esercizio della generosità con l’uso delle risorse finanziarie pubbliche alla manifestazione della capacità di esondare i canali tradizionali della politica estera occidentale con la messa in scena di una incestuosa partnership con l’amico Putin, talmente confidenziale e licenziosa tanto da perdonargli l’appropriazione della Crimea (in barba ai vincoli del Diritto Internazionale) e l’aggressione all’Ucraina realizzata per il (per lui) comprensibile obiettivo di sottrare la Presidenza di quel Paese al ‘bellimbusto’ di nome Zelensky.
Esistono delle pubblicazioni che consentono di s-coprirne non tanto la personalità davvero impareggiabile, bensì di inserire la figura di mattatore da lui interpretata dentro la sceneggiatura del Paese.
Come spiegano in un libro fantastico (degno del personaggio raccontato), ‘TUTTO È BERLUSCONI. Radici, metafore e destinazione del tempo nuovo’, Editore Lupetti, Alberto Abruzzese e Vincenzo Susca “la fenomenologia Berlusconi affonda le sue radici ben prima del 1994. La sua vicenda personale attraversa la storia italiana nella sua totalità e si presta più di ogni altra a costituire l’epifenomeno e il pre-testo, la parte attraverso la quale ripensare il ‘tutto’. Nel successo del suo corpo politico-mediatico sono inscritti i ritardi dell’intellighenzia italiana, l’inadeguatezza degli apparati politici e intellettuali tradizionali, la ricchezza semantica e la ‘volontà di potenza’ della sfera del vissuto quotidiano e dell’immaginario collettivo. Attraverso il Cavaliere avviene il passaggio fatale dalla politica-spettacolo alla politicizzazione dello spettacolo, dai media come oggetto ai media come soggetto del potere”…
E se si vuole invece un saggio sociologico che interpreta il mutamento della comunicazione politica, esaustiva ed ironica la pubblicazione di Massimiliano Panarari, L’EGEMONIA SOTTOCULTURALE. L’Italia da Gramsci al gossip, Einaudi. Leggiamo dal risvolto di copertina: “Una volta il nazionalpopolare era una categoria gramsciana, i giornali e la televisione pubblica erano pieni di scrittori e intellettuali, la sinistra (si dice) dominava la produzione culturale. Oggi nazionalpopolari sono i reality show pieni di volgarità, la televisione (pubblica e privata) è quella che è, e la sinistra pure”.
Ritorneremo su questo capitolo della nostra ricognizione retrospettiva.
Ciò che ci preme sottolineare a fronte della svolta impressa da Silvio Berlusconi è che essa non ha solo messo fuorigioco la resistibile compagine occhettiana, ha disorientato l’intero schieramento di Centrosinistra il quale ha subito una sorta di magnetizzazione dalla quale ha pensato di potersi liberare contrapponendo al Centrodestra letteralmente ‘inventato’ dal Fondatore di Mediaset, un’alleanza politica simmetrica costruita con un programma alternativo che per essere tale era tarato sulle richieste delle forze politiche dimostratesi nel passato ‘irriducibili’ alla governabilità intesa come presa d’atto dello stato reale della Finanza pubblica del Paese.
E’ così successo che è stata avviata la stagione dell’agognata alternanza, realizzata con la creazione dell’Ulivo prodiano vincente, ritenuta secondo l’autorevole opinione di Michele Salvati un miglioramento ‘a scatola chiusa’ del precedente assetto della governance, sottovalutando che essa avrebbe immesso il Paese sui binari di una competizione fallace, con giocatori impegnati a conquistare il consenso degli spettatori-elettori lanciando il pallone dei programmi e delle promesse sempre più in alto in una corsa alla dilapidazione delle risorse pubbliche interrotta solo nell’intervallo fischiato dalla Commissione Europea, durante il quale la coppia Prodi-Ciampi decise meritoriamente che una nuova moneta (l’euro) meritava di essere acquisita attraverso una rigorosa politica economica.
Resta il fatto incomprensibile ed ineluttabile che il trentennio del bipolarismo connotato — come avviamo già rilevato — da ampie dosi di populismo e di faziosità, nonostante la gigantesca opportunità in termini di stabilità finanziaria ed espansione dei mercati creata dall’integrazione europea (in particolare con la moneta unica) non ha indotto l’intero ceto politico nazionale a dedicarsi davvero e con coerenza ad un’autentica liberalizzazione dell’economia coniugata con un welfare equo e sostenibile, ed al risanamento dei conti pubblici.
Seguendo l’approccio interpretativo adottato sin dall’inizio del nostro discorso, ovvero l’individuazione degli elementi di riformismo emersi nella navigazione storiografica, dobbiamo dedicare ora alcune annotazioni sintetiche alle novità affacciatesi all’interno di un quadro politico segnato dall’entropia e dall’incapacità di assumere autorevolmente le redini di una governance all’altezza delle sfide tradizionali, aggravate dall’arrivo della crisi finanziaria internazionale, dall’accentuarsi della competizione globale, dalla drammatizzazione dei fenomeni immigratori e last but not least il riapparire di eventi sconvolgenti (e relegati nelle memorie ed archivi storici per i Paesi occidentali) come la pandemia e le guerre di aggressione imperialistica e terroristica.
Le indichiamo in una successione cronologica, formulando alcune considerazioni sintetiche che saranno integrate con specifiche schede nella documentazione in appendice e che contengono una loro spiegazione più dettagliata.
1. Innanzitutto la nascita del Partito Democratico nel 2007 al Lingotto di Torino, che rappresenta indubbiamente una tappa significativa della storia tribolata della Sinistra: diciamo che nella progettualità ‘vaporosa’ che ne caratterizzò la fondazione c’era molto wishfull thinking, sinonimo di ‘veltronismo’ e scarsa consapevolezza delle contraddizioni e delle tare che ne avrebbero appesantito il cammino e segnato il destino. Rimane il fatto incontrovertibile che esso ha suscitato molto interesse ed una estesa partecipazione democratica con innovazioni di cittadinanza attiva che seppur ‘approssimative’ (le primarie) hanno costituito una pratica incoraggiante, pedagogica e propedeutica alla costruzione di un modello di Partito maggiormente sintonizzato con la domanda sociale di trasparenza e committment. Ci limitiamo qui a sottolineare che:
- le componenti partitiche che concorsero maggioritariamente alla sua costituzione arrivavano in larga misura dai percorsi stressanti dell’esaurimento identitario del Partito Comunista e della Democrazia Cristiana.
- Diversamente dall’area dei cattolici democratici inclini alla mansuetudine e ad un certa subalternità, un gruppo significativo degli ex comunisti irriducibili ad un metodo di competizione democratica che li collocasse in minoranza, sin da subito (con Massimo D’Alema) e successivamente (con Pier Luigi Bersani), si ‘attivarono’ per dimostrare che la denunciata ‘assenza di amalgama’ era l’alibi perfetto per legittimare l’assedio al Segretario arrembante considerato ‘abusivo’ ed ordire una scissione che determinò un prevedibile sconquasso e l’operazione boicottaggio del referendum costituzionale con le conseguenti dimissioni del reprobo che aveva osato issare la bandiera del riformismo e mettere in discussione l’egemonia degli ex-migliori.
- Bisogna inoltre segnalare che il manifesto della ‘rottamazione’ promulgato da Matteo Renzi, lungi dal rappresentare una realistica ed efficace strategia di rinnovamento organizzativo, è diventato una provocazione utile magari per suggestionare e galvanizzare i propri fan e follower, ma non quel programma (indispensabile) di salto qualitativo del processo partecipativo degli iscritti e dei militanti agibile attraverso una digitalizzazione del Partito (qualcuno ricorda il destino della Piattaforma Bob?).
- C’è poi una osservazione ‘laterale’ che è riassumibile in una domanda: come è stato possibile che alla costruzione di un partito con la mission di essere la fucina inclusiva del riformismo, non abbiano preso parte i suoi esponenti storici, ovvero coloro che da socialisti sono stati testimoni ed in molti casi protagonisti continuatori della tradizione del Centrosinistra incubatore di azioni riformatrici destinate a rendere il Paese più moderno e giusto?
2. Il secondo fatto rilevante è la ri-apparizione dei ‘Governi tecnici’, a molti anni di lontananza dalla chiamata in servizio di Ciampi e poi Dini. Con Mario Monti nel 2011 e Mario Draghi nel 2021, Giorgio Napolitano e Sergio Mattarella hanno preso atto della debolezza strutturale dei Partiti e la loro incapacità di generare leadership con lo standing adeguato all’esercizio del ruolo apicale nella governance del Paese che ha subito i contraccolpi di un riassetto provvisorio del sistema politico, retto più con l’abilità dei performer che con quello degli statisti, più con la predisposizione a costruire alleanze (leggi Silvio Berlusconi e Romano Prodi) che a caricarsi della responsabilità di parlare con sincerità e verità al Paese: ed una tale fenomenologia politico-partitica non ha certo creato l’humus idoneo a generare leadership con background ed intelligenza elevati, tali cioè da consentire di comprendere la profondità e complessità della crisi strutturale italiana.
3. E poi c’è da registrare la fenomenologia del ‘renzismo’, una sorta di caleidoscopio che dal 2014 al 2016 ha riflettuto immagini vivaci associate a sentimenti di gioia e di speranzose attese di cambiamento, a promesse e fatti compiuti, ad innovazioni dense di futuro e frustrazioni causate da resistenze e conservatorismi corporativi e generazionali sottovalutati e snobbati con un’imperizia tardoadolescenziale che era il portato ‘comprensibile’ di un ambiente e di una congiuntura politici propri del tardo-berlusconismo, non casualmente elemento presente nella strana miscela del Governo Renzi, trasformatosi in veleno omicida nel momento in cui si stava appalesando una reale discontinuità politico-istituzionale (leggi Referendum del 2016). Si può dedurre con una buona dose di obiettività che il giovane Presidente del Consiglio messo in pedana da un Giorgio Napolitano stanco della melina di un Parlamento screditato, ha dato con la sua vivacità e con il suo velleitarismo una rappresentazione verosimile dello stato del Paese oscillante tra le istanze pressanti di rinnovamento e le pigrizie persistenti di apparati burocratici, nomenclature politiche e lobbies voraci timorose di doversi mettere in gioco ed essere sottoposte a controlli e valutazioni prestazionali, a dover sottostare insomma a regole di trasparenza, competitività e produttività, in linea con i criteri ed i parametri adottati per le imprese ed i ceti professionali impegnati a fare i conti con la redditività delle loro attività e lo scenario stringente e vincolante della globalizzazione.
4. Resta infine da segnalare l’emergere del ‘Terzopolismo’ inteso come via ragionevole ad un riformismo liberaldemocratico sulla quale indirizzare quella parte dell’elettorato frustrato dal populismo di destra e di sinistra ed in parte crescente orientato a disertare le urne. L’aspetto paradossale della vicenda è che i leader promotori e destinatari del consenso richiesto e, nella prima tornata elettorale di presentazione del Progetto, ottenuto, si sono dimostrati del tutto irragionevoli, manifestando un tasso di doppiezza ed un grado di incomprensione reciproca tali non solo da farlo naufragare, ma anche a pregiudicare il futuro di un’iniziativa rimasta in stand by e foriera di polemiche esondate negli insulti e nel disonore. Ai protagonisti della querelle, Matteo Renzi e Carlo Calenda, abbiamo dedicato un’attenzione notevole, anche perché il disegno politico che si erano intestati meritava credito e condivisione: ma vogliamo precisare che sia la ‘lettera aperta’ a loro rivolta ed il commento argomentato alle loro pubblicazioni, che trovate in Appendice, significano che distinguiamo il dito (cioè loro) dalla luna (cioè il progetto politico libdem riformista) che li sopravanza per importanza, ovvero a prescindere dalle loro carriere e dal loro destino. E proprio l’iniziativa del Forum la cui piattaforma promozionale è il documento presente, intende confermarlo, ampliando e precisando le ragioni culturali, programmatiche ed organizzative che rafforzano la volontà di proseguire il percorso interrotto da loro due.
5. Naturalmente nel periodo esaminato si è assistito anche all’esplosione di una fenomenologia politica straordinaria e per molti versi sconvolgente, ovvero la nascita e la strepitosa affermazione elettorale del Movimento 5 Stelle sotto la spinta di un Comico e la guida di un tecnologo informatico, la nota coppia Beppe Grillo & Gianroberto Casaleggio. Per l’analisi di questa realtà storicamente rilevante rinvio al Capitolo ‘Democrazia in fermento e fenomenologia M5s’ all’interno del libro ‘La Democrazia non è un pranzo di gala’ di cui trovate il link più avanti nel testo.
Giunti a questo punto della nostra rivisitazione storiografica, si rende necessario tirare le somme dei giudizi espressi sui molteplici passaggi e soprattutto prendere atto della realtà contemporanea che si è venuta dipanando davanti ai nostri occhi e che ci ha fatto pensare alle parole di Eugenio Montale in Satura: ”La storia non è poi la devastante ruspa che si dice. Lascia sottopassaggi, cripte, buche e nascondigli”.
Noi abbiamo inteso cercare gli spazi e le occasioni in cui i molti padri del socialismo e del popolarismo hanno dimostrato di poter dare una efficace spinta alla storia nella direzione del progresso, dello sviluppo e della giustizia sociale.
Ora passiamo a delineare la condizione con cui devono fare i conti tutte e tutti coloro che si sentono impegnati a continuarne l’opera.
E si tratta quindi di esporre le caratteristiche di una congiuntura storica che presenta tensioni ed accelerazioni delle trasformazioni che fanno parlare gli studiosi ed i commentatori di ‘crisi della democrazia’.